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Intervista alla designer Federica Biasi
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Federica Biasi | ph. Luca A. Caizzi
Federica Biasi è una designer dallo stile essenziale e poetico. A ispirarla sono l’estetica nordica e l’approccio al design tipico del mondo orientale, che considera le emozioni suscitate dagli oggetti parte integrante del progetto stesso. Interessata alla cultura artigianale italiana e alle sue molteplici espressioni, Federica Biasi ha condiviso con noi una ricerca sulla lavorazione del rattan.

Il tuo percorso nel mondo del design inizia in Italia, ti porta ad Amsterdam, poi di nuovo in Italia. Quando hai deciso di aprire il tuo studio a Milano e perché?

Ho aperto il mio studio a Milano nel 2015, ma la vera domanda è perché sono partita. Ho vissuto in Olanda per circa due anni, dopo aver lavorato in uno studio di architettura a Milano. Mi sembrava fosse arrivato il momento di capire cosa volevo fare davvero, cosa mi appassionava e cosa no. Mi sono laureata in design d’interni, ma lavorando mi ero accorta che mi piaceva di più occuparmi di prodotto, dei dettagli. Ad Amsterdam ho avuto l’opportunità di lavorare in primis su me stessa, di definire meglio la mia estetica e il tipo di lavoro che volevo fare. Da freelance i miei clienti erano soprattutto in Italia, così ho deciso di rientrare. Ho aperto il mio studio con un po’ di incoscienza, ma è stata la scelta giusta.

Cosa resta dell’esperienza in Nord Europa nel tuo design?

Molto, soprattutto nell’approccio. Non arrivo a dire che l’estetica viene prima della progettazione, ma di sicuro non è secondaria. Quando progetto un prodotto, o uno spazio, penso sempre all’esperienza, al feeling che si verrà a creare con chi ne fruirà. In Nord Europa, così come in Giappone, sono molto attenti a questo. L’Italia ha un heritage di design industriale, e a volte sento il bisogno di evadere questa scuola di pensiero, di rendere il design più olistico. Per esempio mi piace lavorare sui colori, sulla qualità dell’illuminazione. E a casa mia non mancano mai i fiori.

Come si è evoluto il tuo segno nel tempo?

È completamente cambiato. Quando decidi di intraprendere una professione come quella del designer, così come in tutte le professioni, cominci senza sapere bene chi sei e man mano ti scopri. Ogni anno è un’evoluzione, una scoperta. Forse la cosa più interessante di questi ultimi anni è aver messo da parte il mondo dell’industrial design per fare ricerca. Questo mi aiuta molto nel lavoro, perché in azienda non porto solo una forma, un colore, un materiale, ma un modo diverso di fare qualcosa che è già stato fatto, e dunque nuovo punto di partenza: una ricerca.

C’è molto Oriente nel tuo design, anche nel progetto sviluppato con Incalmi. Cosa ti attrae, quali aspetti cerchi di raccontare?

Per prima cosa mi piace l’approccio al prodotto, l’attenzione particolare al dettaglio. E poi trovo interessante la dimensione artigianale, che convive con la tecnologia. Il Giappone, e l’Asia in generale, non dimentica le sue radici artigianali, cerca di portarle con sé, di trasformarle in un valore aggiunto. È una cosa che in Italia abbiamo perso. Pur essendo eccellenti nell’artigianato, nell’heritage, nella storia, quando facciamo un prodotto industriale tendiamo a guardare sempre al futuro. Il che non è sbagliato, ma sento che non mi appartiene del tutto, mi manca l’aspetto umano, il saper fare con le mani.
ph. Luca A. Caizzi
Com’è nato il progetto a cui hai lavorato con Incalmi?

Ho conosciuto Patrizia di Incalmi mentre stavo lavorando a un progetto personale per una mostra dell’ADI Design Museum. Ero alla ricerca di qualcuno che avesse voglia e tempo di fare, più che un prodotto puro e semplice, una sperimentazione sul vetro artistico. Incalmi si è rivelata il partner perfetto, ho subito percepito la loro disponibilità a fare ricerca, ad andare oltre i limiti, a provare e riprovare. Chiacchierando, abbiamo scoperto di avere una passione per gli intrecci in fibra naturale. Io ci lavoravo da qualche anno, loro anche, e così abbiamo iniziato un progetto insieme, coinvolgendo un loro fornitore che è un erede della Scuola di Barbisano. Tra l’altro mi sono molto appassionata a questa storia!

Come siete arrivati a Koya?

A essere onesta non pensavo che avrei progettato un oggetto, per me si trattava di pura sperimentazione. L’esigenza di mettere a terra la ricerca era più di Incalmi, e così ho immaginato uno scrigno, che si è poi trasformato in un coffee table. Ma lo si può anche leggere come una scultura, intendo che non per forza deve avere una connotazione funzionale.
ph. Luca A. Caizzi
Lavori con molte aziende a progetti di industrial design. È stato diverso lavorare a un progetto con una componente artigianale così forte?

Sì. Incalmi è stata eccezionale. Da un lato Patrizia, che dice sempre di sì e sa come far lavorare insieme le persone. Dall’altro Gianluca, che ha una grandissima passione per la ricerca, come me: quando io avevo un’idea, lui la prendeva e la portava oltre i limiti di quello che io potevo immaginare. E dove non arrivava lui, arrivavo io, un pezzettino alla volta, a quattro mani.

È stato molto bello collaborare con loro. Soprattutto in un momento in cui, e chi lavora nell’industrial design lo sa bene, la fase di ricerca e sviluppo nelle aziende è sempre più breve, se non inesistente. Vale per tutti gli ambiti, non solo nel design. La ricerca non viene mai vista come qualcosa di concreto, perché non è utile nell’immediato.
ph. Luca A. Caizzi
Come mai hai scelto il vetro cattedrale per il piano, e non il vetro riciclato, che avrebbe aggiunto un ulteriore significato al progetto?

Perché non sovraccaricare l’oggetto di significati è importante tanto quanto dargli un senso. Il focus del progetto per me è la fibra naturale intrecciata, e parlare del vetro avrebbe distolto l’attenzione. Penso che sia importante scegliere a cosa dare valore.

E il tema del colore? Avevi in mente il rosso fin dall’inizio…

Sì, è stata un’intuizione. Quando ho iniziato a pensare a un oggetto in fibra naturale, non volevo assolutamente che sembrasse un grande cesto. Perché l’attenzione sarebbe stata catturata dall’immagine che tutti abbiamo del cesto di vimini, di bambù. Volevo qualcosa di meno artigianale e più pregiato, un colore che potesse dialogare con il mondo dell’arte. Quando poi abbiamo  sperimentato che esisteva una resina tratta dalla pianta stessa del rattan ed era rossa, abbiamo intuito che era la conclusione perfetta per il progetto.
Dettaglio di Koya | ph. Luca A. Caizzi
Quali evoluzioni immagini per questo progetto?

Potrebbero essercene diverse. Da un lato potremmo creare qualsiasi tipo di oggetto con lo stesso materiale, cambiandone la forma. Oppure potremmo lavorare sull’intreccio in sé, eliminando il colore. Non saprei, non ci ho ancora pensato perché per me è stata pura ricerca. Come nella ricerca scientifica, quando capita che scopri qualcosa ma non sai esattamente quali sono tutti gli ambiti in cui potrai applicarla.
Koya di Federica Biasi | ph. Luca A. Caizzi