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Intervista all'artista Caterina Roppo
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Caterina Roppo | ph. Serena Eller


Com’è iniziato il tuo percorso artistico?

È iniziato al Polimoda, a Firenze. Era il primo anno in cui la direttrice era Linda Loppa, una designer belga che è stata importantissima per la storia della moda, e che ha dato alla mia generazione un imprinting molto forte, decisamente artistico e molto poco legato al tema commerciale. Io per esempio mi sono diplomata con un progetto che sfiorava sia l’arte che il design, ho creato una lampada gigante usando i nastri delle videocassette, e anche l’abbigliamento era fatto nello stesso materiale intrecciato. Dopo la laurea sono rimasta a Firenze, e mentre lavoravo per un brand di moda ho continuato con la fotografia, la ricerca, la sperimentazione. Firenze, se uno ha una storia da raccontare, è il posto giusto, perché viene ascoltato e accolto, c’è molta apertura dal punto di vista culturale.

Quando hai iniziato a lavorare con il tessuto, che poi è diventato il tuo alfabeto?

A un certo punto ho lasciato il lavoro a Firenze e mi sono trasferita a Milano dove ho aperto, insieme ad altri partner, una prima agenzia di art direction e una seconda specializzata nella ricerca tendenze. Dirigevo il reparto di ricerca di Milano Unica, avevo creato un team di artigiani e artisti dove la sperimentazione artigianale anticipava quella industriale, creando elementi tessili e sperimentando nuove tecnologie. Abbiamo precorso il tema della sostenibilità nel tessile lanciando il progetto Save the Planet, promuovendo il dialogo con le aziende che desiravano investire nel cambiamento per un’industria a impatto ambientale ridotto. A dire la verità in quel periodo, pur lavorando con i tessuti, il mio mezzo espressivo era la scrittura. Scrivevo per spiegare la ricerca – avanguardie materiche, sensibilità cromatiche e sviluppi tecnologici – affiancando Antonella Matarrese, giornalista di Panorama, per i testi dei nostri TrendBook.
Galateo ancestrale | ph Serena Eller
Com’è nato e quando il progetto Trayma?

È nato dopo un altro cambio di vita. Ho avuto un incidente in cui ho quasi perso la vita e ho sofferto di un lungo e profondo disordine da stress post-traumatico. È stata una condanna e una benedizione: scoprire il senso della vita nel momento in cui ho rischiato di perderla mi faceva percepire tutto in modo diverso. In quel periodo ho realizzato quanto poco si parli di salute mentale, e quanto poco siamo pronti ad ascoltare. Ho deciso di avviare un progetto con cui comunicare quello che avevo vissuto, le mie riflessioni. Volevo creare un salotto per ospitare artisti, medici, psichiatri e creativi di ogni genere, ma ho concluso che il modo migliore per farlo fosse attraverso l’arte, continuando quindi il mio percorso creativo in maniera organica. L’arte è un veicolo senza pregiudizi.
La cicatrice è diventata in mio simbolo espressivo, precisamente le cicatrici nella pietra e nelle rovine abbandonate, perchè in questi luoghi permangono echi di vite vissute, traumi ed esperienze, che attraverso la natura raccontano la resilienza. Ho utilizzato l’alfabeto che conosco: il tessile. Parto dal filo e realizzo sculture tridimensionali che raccontano storie di vita, ponti tra l’annientamento e il superamento. La struttura delle opere di Trayma ha una componente ingegneristica molto importante, si potrebbe considerare un’invenzione, che mi permette di moderare il filato nello spazio attraverso il calore.

Quindi c’è una componente di casualità nelle tue opere?

Sì, assolutamente. Sono artefice ma anche mezzo creativo, a metà tra il mondo tridimensionale e il mondo dell’essere. Tengo particolarmente a mantenere questa componente di casualità.

A proposito di genius loci. Sei nata in Puglia e vivi a Mallorca: che ruolo ha avuto il paesaggio sulla tua arte?

È stato fondamentale, anche perché la Puglia ha gli stessi colori, gli stessi profumi e la stessa energia di Mallorca. Le assonanze sono viscerali, a Mallorca ho fatto pace con il passato.

Quali evoluzioni ha avuto il progetto Trayma fino ad ora?

Io credo che l’arte non possa rimanere solo nell’emisfero concettuale, ma debba essere abbinata al craft, la capacità. E Trayma è un lavoro che ho iniziato e voglio proseguire all’interno di questo emisfero. Da quando sono partita con questo progetto è successo tutto molto velocemente. Sentivo un’urgenza, e nello stesso momento, ma me ne sono resa conto dopo, tutti iniziavano a parlare di questo tema della salute mentale in modi diversi. La SerieVolume, ad esempio, esplora il vissuto del panico e la conseguente difficoltà di comunicare una condizione che altera la percezione stessa del mondo, quasi perdendo il senso del volume e dello spazio circostante. Con la SerieScoperta, si entra in una fase di rinascita, in cui la ritrovata lucidità porta alla riscoperta della vita e del piacere delle piccole cose, una riappropriazione della propria essenza. Successivamente, una nuova consapevolezza emerge, quella dell’overcoming, il superamento del trauma. Qui il focus si sposta dal personale all’universale: come si arriva a tale consapevolezza in assenza di un’esperienza condivisa? Questo interrogativo ha condotto Trayma verso una riflessione sull’essere senza mondo, ponendo le basi per un nuovo capitolo del progetto, che coinvolge il pubblico in una dimensione performativa, esplorando l’interazione tra individuo e collettività.
Quando hai conosciuto Incalmi e come si è evoluto il vostro rapporto?

Ho vinto un premio promosso da Incalmi nel concorso Arte Laguna Prize, e tra me e Patrizia è nata un’affinità elettiva. Lei è rimasta colpita, più che dal progetto, dalla mia ricerca. Una ricerca sul DNA e sulle scoperte che gli scienziati hanno fatto nell’ambito dell’epigenetica – cioè sul fatto che il trauma si trasmette, attraverso il DNA, ai propri figli. È una cosa che hanno studiato nei sopravvissuti dell’Olocausto e che mi spaventa molto anche rispetto alle guerre in corso in questo momento. Parlandone con Patrizia, abbiamo deciso di affrontare, per il premio Arte Laguna Prize, il tema del femminicidio, affrontando il vuoto di chi resta e deve affrontare il trauma. E dunque abbiamo iniziato a lavorare sulla simbologia dei materiali: la pietra, il rame e il tessuto sono andati a comporre un’installazione.

Ed è mentre facevate questo lavoro artistico che è nato il materiale con cui avete realizzato Galateo ancestrale?

Sì, il nuovo materiale è emerso sperimentando insieme. Sono rimasta estasiata dal coraggio di Incalmi nel portare avanti ricerche e investigazioni materiche. Abbiamo fatto degli esperimenti con il fuoco incredibili, quasi folli. A un certo punto volevamo coprire la pietra e il tessuto di Trayma con il rame smaltato, ed è nato questo materiale meraviglioso.
Galateo ancestrale | ph Serena Eller
Com’è stato rielaborare il tuo lavoro in forma di oggetto?

Una volta realizzato il materiale, mi sono chiesta come contestualizzarlo nello spazio. In questa fase ancora una volta Incalmi mi ha sorpreso per la capacità di confronto. Ho lavorato sul tema della tridimensionalità, che per me è fondamentale, perché quello che differenzia le mie opere d’arte da un tessuto normale è che loro si muovono nello spazio. Non ti so dire com’è nato il tutto, è come se fosse stata la materia, a un certo punto, a chiedere di essere reinterpretata. Insieme a Gianluca di Incalmi, con cui si è creata una bella affinità progettuale, abbiamo immaginato di lanciare in aria la materia, ed è nata l’idea di una sospensione, verticale e orizzontale. Nei vasi c’è la stessa propulsione rituale.
ph. Serena Eller
Perché hai deciso di intitolare il progetto Galateo ancestrale?

Il respiro è la mia religione. Io medito regolarmente e pratico diverse tipologie di yoga, tra cui il kundalini, che del respiro fa una vera e propria filosofia. Viaggiando mi sono resa conto che nei luoghi dove lo yoga è nato e si è diffuso il galateo non è codificato dalla maniera o dalle etichette, ma hanno un rispetto profondo degli spazi dell’altro. È come se saper respirare ti rendesse capace di stare al mondo, un concetto banale forse, ma profondissimo. Nel momento in cui abbiamo lavorato sul movimento di queste opere, lanciandole in aria, quindi facendole respirare prima di bloccarle con il rame, siamo in qualche modo andati a celebrare questa bellissima filosofia, immaginando di entrare nella casa di qualcuno muniti solo di un “galateo ancestrale”, cioè la nostra capacità di respirare.
EDIT Napoli 2024, Galateo ancestrale | ph Serena Eller