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Intervista a Federica Sala
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Federica Sala | ph. Jessica Soffiati
Federica Sala lavora da più di vent’anni nel mondo del design, con ruoli trasversali che vanno dalla curatela di mostre, libri e progetti culturali alla consulenza per aziende e designer. La sua carriera è iniziata come assistant curator nel dipartimento di design del Centre Pompidou di Parigi, mentre il suo approccio, nel corso degli anni, è andato aprendosi all’arte, all’architettura, alla letteratura e al teatro. Dal 2022 è Editor in Chief della rivista The Good Life Italia. Con Federica Sala abbiamo parlato di design e artigianalità, di visioni per il futuro e del progetto Gen D - Generazione Designer che cura per Dolce&Gabbana e a cui noi partecipiamo tra le realtà artigianali selezionate.
Sei una curatrice indipendente, un’advisor e la direttrice della rivista The Good Life Italia. Che cosa unisce queste tre attività?

La curiosità, che mi ha sempre portata a interessarmi a cose molto diverse, e che adesso, soprattutto con The Good Life Italia, mi sta aprendo a nuovi mondi e nuove conoscenze. Tutte e tre le attività poi si basano su un lavoro che ha al centro i contenuti: che siano i contenuti di una mostra o la consulenza a un designer, tu dall’esterno tracci una linea di quelle che potrebbero essere le evoluzioni future. E infine la creatività, che è l’ambito in cui tutte e tre queste cose si muovono.

E cos’è invece a differenziarle? Immagino che tra un’istituzione culturale e un’azienda possano esistere divergenze a livello di obiettivi: diresti che il tuo lavoro cambia nell’interfacciarsi con l’una o con l’altra?

Certo, il lavoro cambia sempre. Se curi una mostra per un’istituzione pubblica statale devi pensare a quello che in Francia chiamano large public, quindi a un prodotto culturale divulgativo con un forte impianto pedagogico che permetta di far capire a un pubblico più ampio possibile il soggetto della mostra, che sia dedicata a un singolo designer o a un movimento. Serve una capacità narrativa diversa, che tenga insieme addetti ai lavori e non. I progetti per le aziende invece possono essere di vario tipo: culturali, di comunicazione oppure commerciali, e questo ovviamente cambia completamente l’approccio. Faccio un esempio. Qualche anno fa ho avviato una collaborazione con Buccellati, un brand storico della gioielleria che voleva affacciarsi al mondo del design attraverso gli oggetti per la tavola, che loro producevano da anni. La mia proposta è stata far lavorare quattro interior designer con le collezioni esistenti, con l’obiettivo di mostrare come quegli oggetti, che richiamavano un milieu da antica nobiltà, potessero invece essere molto contemporanei se usati in modo completamente diverso. Questo ha portato poi a una razionalizzazione dei loro cataloghi commerciali. La parte commerciale rimane molto importante nel design, perché il design ha una diretta finalità commerciale a differenza dell’arte, che magari è più scevra dal legame con il mercato.

In quale di questi due mondi ti senti più libera?

Dipende da progetto a progetto e da azienda ad azienda. Anzi, dipende dalle persone. Puoi essere estremamente libero in un’azienda come in un’istituzione, se i tuoi interlocutori sono delle persone con cui hai un dialogo, un’affinità. Invece non c’è mai libertà quando il tuo interlocutore non ha una reale apertura mentale, o è molto dogmatico. Ovviamente dei paletti ci sono sempre, però sono sempre le persone che fanno la differenza. Finora, i lavori che sono andati bene, che sono stati una gioia e magari poi hanno generato altre cose, sono sempre stati legati a un ottimo rapporto con le persone che c’erano, alla sintonia che si è creata tra me e il team dell’azienda o della realtà istituzionale, di qualsiasi dimensione fosse.
Quanto riesci a trasportare la tua esperienza nell’ambito culturale in quello della comunicazione aziendale e viceversa?

Tanto, soprattutto negli ultimi anni. Quando mi sono affacciata a questo mondo, il mio lavoro consisteva più che altro nel cercare sponsor per delle iniziative. Poi il mondo della comunicazione è cambiato, è arrivato il branding, e tutte le aziende hanno iniziato a lavorare sui propri valori culturali, l’heritage, la visione del futuro. Adesso potenzialmente chiunque è un committente di progetti culturali. Nella rivista [The Good Life, N.d.R.] mi sono inventata una rubrica che racconta i progetti delle aziende che fanno cultura imprenditoriale attraverso diversi mezzi di divulgazione. L’anno scorso abbiamo parlato dei magazine aziendali: oggi sono in tantissimi a raccontare il proprio lavoro così – dall’azienda che produce farine allo studio di architetti. Anche i cataloghi non sono più solo un veicolo commerciale, ma raccontano il soggetto, i suoi valori, il suo legame con il territorio. Questa cosa in realtà in Italia si è sempre fatta, solo che prima la si faceva senza sapere che la si stava facendo, mentre oggi le si è dato un nome, e quando nomini una cosa poi si crea un sistema, e questo aiuta anche a razionalizzare una serie di figure che lavorano in quei campi e che prima non avevano un inquadramento.

Come la tua?

Quando leggo gli articoli in cui si parla dei lavori che si faranno in futuro e che ancora non esistono, penso che già io, oggi, faccio un lavoro che per i miei genitori non esisteva.

Dicevi che questa del raccontarsi attraverso i progetti culturali è sempre esistito in Italia?

Credo che l’Italia sia il paese al mondo con il maggior numero di musei aziendali, dal museo dell’Alfa Romeo al museo delle macchine da caffè, il MUMAC. Spesso e volentieri sono musei principiati da un’azienda, ma che poi magari si aprono anche a progetti di aziende simili. Non sempre: il museo dell’Alfa Romeo è stato aperto da un loro storico concessionario.
Da sinistra: Mingyu Xu. Da destra: Jie Wu | Photo Dolce e Gabbana Casa
Anche Gen D - Generazione Designer, il progetto che curi per Dolce&Gabbana, è un progetto di questo tipo? Com’è nata l’idea?

L’idea è venuta ai fondatori, Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Diciamo che è nata come un’estensione di un’attività che già facevano. Loro sono sempre stati molto attenti ai giovani, già tanti anni fa avevano aperto in via della Spiga, a Milano, un negozio dove vendevano le etichette di piccoli brand emergenti. Poi hanno cominciato a selezionare ogni anno dei fashion designer a cui organizzano la sfilata, occupandosi anche di tutta la parte di comunicazione, dando loro una grande visibilità. Quindi, quando hanno deciso di aprire la collezione Dolce&Gabbana Casa, sulla quale peraltro avevano già iniziato a lavorare da tempo, hanno voluto fare la stessa cosa. Gen D è nata proprio per trasportare nel mondo del design quello che già facevano nella moda.
L’idea è selezionare ogni anno dieci designer internazionali under 40 e farli lavorare con artigiani italiani. È una parte importante del progetto, perché se sei un designer italiano hai più facilità di lavorare con tutta una serie di eccellenze, ma se non lo sei è molto più complicato. Volevamo creare dei ponti culturali con il nostro territorio, tra l’azienda e loro, tra loro e diverse realtà artigianali, con cui spesso il lavoro prosegue anche dopo Gen D. L’anno scorso, per esempio, uno dei designer selezionati ha presentato i suoi lavori in una mostra a Design Miami, e tutti i pezzi sono stati prodotti in Italia, cosa niente affatto scontata. Altra cosa bella è che i designer vengono invitati a Milano e passano insieme tre giorni, quindi tra di loro si creano dei legami che vanno al di là del progetto. Alla fine restiamo tutti in contatto, loro ogni volta che passano da Milano si fanno sentire, e ovviamente poi si sentono tra loro. A pensarci bene, forse è questa la vera eredità del progetto, creare tutti questi legami che restano. Credo che questo sia vero mecenatismo, perché l’azienda si offre di produrti un pezzo, dandoti carta bianca e nessun limite di budget, è ricerca pura. Ovviamente poi c’è anche l’aspetto della comunicazione, ma non è neanche così forte, prima viene il progetto.
Da sinistra: Wonderland di Mingyu Xu. Da destra: A Journey di Jie Wu | Photo Dolce e Gabbana Casa
Quanto dura il progetto?

Un anno e mezzo. Per me è una cosa bellissima vedere come cambiano i designer nell’arco di questo periodo, come diventano più sicuri di sé. C’è proprio un’evoluzione.

Come scegli i designer?

Facendo ricerca. Cerco di vedere quante più mostre possibile, di visitare gallerie indipendenti, graduation show etc. Leggo giornali e riviste, qualcuno lo intercetto su Instagram, oppure mi affido a consigli di persone che conosco. Per quanto possibile, cerco di conoscerli di persona, anche se è più facile farlo con chi vive nei luoghi in cui mi capita di andare più spesso, magari dall’altra parte del mondo non è così facile. Poi facciamo una serie di colloqui online, e da una preselezione più ampia arriviamo a scremare il gruppo finale.

E le realtà artigianali come vengono selezionate?

Partiamo da quelle che già collaborano con l’azienda, anche se devo dire che ogni anno dobbiamo cercarne di nuove perché le esigenze dei creativi sono sempre diverse.
Da sinistra: Stephanie Sayar e Charbel Garibeh. Da destra: Atelier Malak | Photo Dolce e Gabbana Casa
Quali evoluzioni hai visto nel mondo del design, e quali ti aspetti per i prossimi anni?

Una delle cose più interessanti è stato il recupero del valore artigianale delle lavorazioni. Questo tipo di attenzione c’è sempre stata in Italia, ma penso che nei prossimi anni continuerà a crescere, anche visto l’arrivo dell’intelligenza artificiale, per cui avrà sempre più importanza quello che magari le macchine non potranno fare, ma le mani e il cuore sì. Per il futuro direi, ma è più un auspicio, che mi piacerebbe se il design uscisse dal mondo della casa e dell’arredo e ritornasse un tema pubblico. È una cosa che abbiamo un po’ dimenticato, ma che mi viene in mente ogni volta che guardo la metropolitana di Milano progettata da Franco Albini.

A una realtà artigianale come Incalmi che consiglio daresti?

Incalmi, e non lo dico perché sto facendo questa intervista, penso che abbia perfettamente capito come fare le cose. Rappresenta i valori tipici di quella che è stata la capacità degli italiani di andare nel mondo e di essere apprezzati: creatività, qualità dell’esecuzione, ma anche una flessibilità mentale nel seguire un progetto, nel cambiare direzione quando serve. Mi sembra anche importante un’altra cosa, e cioè che le realtà artigianali a volte peccano nel pensare di fare tutto da sole, mentre Incalmi ha sempre riconosciuto il valore dei creativi e dei professionisti. È ciò che ha sempre caratterizzato anche la nascita delle aziende di design, un mix di passione e di rischio imprenditoriale. Sicuramente Incalmi si è assunta dei rischi imprenditoriali nel fare certe cose, e questo le ha dato effervescenza, anche rispetto alle tante aziende storiche che, ormai diventate dei giganti, e magari acquisite da fondi industriali, hanno delegato il lavoro ai manager.

Che ruolo avranno in futuro la manifattura italiana e il made in Italy?

È ovvio che bisogna difenderli. Sicuramente uno degli aspetti più importanti è quello della formazione delle nuove generazioni, per cui trovo importanti tutte le iniziative per esempio di Fondazione Cologni, ma anche di tante aziende che iniziano ad avere delle vere e proprie scuole interne. Bisognerebbe investire di più nell’educazione. Al solito, siamo un paese con i suoi pro e i suoi contro, sono sempre stati i privati, dai tempi di Lorenzo il Magnifico, a supplire a tutta una serie di cose. Ma questo sarebbe il momento giusto di farlo, perché se da una parte tanti lavori cambieranno, magari dall’altra torneremo ai lavori artigianali, a suonare il pianoforte e ad andare a teatro.